In occasione della mostra Piero Gilardi - Effetti collaborativi 1963-1985, presso il Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea dal 31 marzo al 13 maggio 2012, abbiamo incontrato al PAV l'artista torinese per fare il punto sulle nuove frontiere e sul significato sociale dell'arte contemporanea.
Negli anni Ottanta affermavi: 'l'arte può cambiare la società'. Dopo trent'anni ne sei ancora convinto?
La risposta è sì, ma con una precisazione. Oggi è diventata impraticabile l'influenza del cittadino sulla governance della società. Siamo in una fase storica di tecnocrazia per cui la democrazia rappresentativa non è assolutamente più sufficiente a far sentire la sovranità popolare nella conduzione della società, nella conduzione del mondo e delle misure per la salvaguardia dell'ambiente. L'influenza dell'arte sulla nostra vita passa attraverso la soggettività degli individui. Cioè l'arte aiuta gli individui a prendere coscienza di una situazione contraddittoria, a comprenderne le motivazioni, le cause e costituisce uno stimolo alla soggettività politica ad agire, naturalmente nel contesto di una progettualità politica collettiva.
Sussistono ancora i presupposti per un tipo di arte relazionale?
Oggi non sarebbe possibile ripetere il carnevale di Borgo Aurora, anche se qua e là succedono ancora eventi collettivi e popolari. Alla periferia di Roma una comunità di immigrati ed emarginati ha creato una sorta di festival, nel corso del quale è stato spedito un razzo sulla Luna dicendo: 'visto che il Governo italiano non ci vuole, anzi ci perseguita in quanto clandestini, noi andiamo sulla Luna' (evento "Tutti sulla Luna!" presso Space Metropoliz, Roma 30 novembre 2011, ndr). La diversità sta nel fatto che nel 1980 queste epressioni erano organicamente connesse ad un contesto di lotte sociali generale, impegnate a portare le rivendicazioni dei ceti popolari fuori dalla fabbrica; riguardavano la possibilità dei cittadini di partecipare al governo dei servizi sociali. Oggi quando c'è un evento artistico spontaneo vivace, manca il collegamento con un'atmosfera sociale collettiva, che è invece quella della passivizzazione del consumismo, un ambiente sfavorevole per questo tipo di espressioni. Ci può anche essere una sorta di riconoscimento, ma effimero. Per esempio gli spettacoli teatrali fatti nelle carceri, a partire dal carcere di Volterra, sono stati abbastanza pubblicizzati dai media, ma cosa hanno portato al problema drammatico della mancanza della riforma carceraria? Finora assolutamente niente.
Quali fattori determinano oggi la produzione e la fruizione dell'arte?
La società postmoderna, la società che ha cominciato a prendere forma negli anni Ottanta, con la svolta della rivoluzione informatica, della virtualizzazione della società, ha portato ad una dimensione di estetizzazione della società. Estetizzazione che è funzionale al consumo di beni d'uso inutili e superflui.
Nelle attività espressive c'è una componente di tipo immaginativo e di tipo pulsionale. Oggi le espressioni spontanee dell'attività collettiva sono purtroppo inquinate da atteggiamenti sollecitati dalla televisione, che sembra diventata l'unica via per compiere il proprio processo di iniziazione. Se compari in televisione sei, altrimenti non esisti. C'è però in questa creatività così parzialmente compromessa una forza nuova che nasce da un elemento sociologico molto importante, ovvero che ormai il modo di produrre della specie umana passa attraverso delle tecnologie che implicano la cooperazione. Quindi tutta la vita delle persone, non più solo il tempo di lavoro, è implicata nella produzione sociale. Questo modello spinge le persone ad agire sul piano della lotta per i beni comuni, che devono essere gestiti e fruiti da tutti nello stesso modo.
E' una sorta di ritorno alle tue formulazioni teoriche sull'energia primaria dell'Arte Microemotiva?
Erano tempi storici molto differenti. Negli anni Sessanta la grande rivoluzione culturale, mettendo in discussione tutti gli assetti sociali, aveva creato una sorta di inconscio collettivo, che era il motore della espressività. Oggi l'espressività nasce da ciò che è stato storicamente studiato e definito come 'general intellect', cioè dall'intelligenza collettiva. Essa ci condurrà a una forma di relazione in cui l'espressione accoglie tutte le differenze individuali, ma all'interno di un flusso espressivo corale. C'è un esempio emerso nel corso di un seminario all'Università di Roma che è quello del prato fiorito: la nuova creatività della società tecnologica e collaborativa (dove per tecnologica si intende la tecnologia delle telecomunicazioni), è come un prato fiorito, dove ci sono tanti fiori di colore diverso, ma tutti accomunati dal prato in tutta la sua ricchezza interna di specificità differenziale. Questa immagine è una buona metafora della creatività diffusa.
Bio-tech art e Transgenetic art. Esiste un limite etico alle sperimentazioni in questo specifico campo dell'arte?
Bisogna essere molto cauti a usare un metro di giudizio etico nel campo artistico, perché spesso questo strumento viene usato per reprimere delle espressioni artistiche. Bisogna sempre pensare che c'è nell'artista una attitudine a portare a galla un qualcosa di taciuto intorno a lui. Questo qualcosa può essere terribile, però l'artista ha legittimamente il diritto di esprimere la sua tensione interna. Ad esempio la pulsione che anima Eduardo Kac è quella di aprire un dialogo tra tutte le specie viventi, ivi compresa l'intelligenza artificiale. Il suo vero bisogno è quello di trovare una sorta di comunicazione ecumenica tra gli organismi intelligenti e pensanti, senza discriminare quelli artificiali. Quello che è necessario è giudicare a posteriori l'utilità di determinate espressioni artistiche. Il giudizio non può esercitarsi a priori, come pregiudizio nei confronti di un'eperienza estetica. Io sono stato un pioniere dei nuovi media e devo dire che tutto il lavoro che abbiamo fatto è stato sfruttato e usato negativamente a fini di business. Oggi però non siamo ancora in grado di dare un giudizio a posteriori sulla Bio-tech art.
Qual è il principale insegnamento che hai tratto dalle tue esperienze artistiche con le popolazioni tribali nordamericane e africane?
Nelle mie esperienze di lavori con i nativi della riserva Mohawk di Akwesasne (USA) e del villaggio Samburu in Kenya, il dato emergente positivo era che ci fosse, che nascesse e si sviluppasse, un processo di scambio e di ibridazione tra le culture tribali e la nostra società tecnologica, ciò che noi oggi chiamiamo interculturalità. L'insegnamento che ho avuto è che l'interculturalità è veramente l'obiettivo importante della società odierna per andare verso un mondo nuovo. Le culture tribali hanno tanti pregi, ma hanno anche nella loro ritualità alcuni difetti, che invece ad esempio noi abbiamo superato con la nostra concezione dell'interiorità e dei diritti individuali. Il diritto universale e la rivoluzione francese non li buttiamo ancora via. Nello stesso tempo noi abbiamo avuto la psicanalisi, teniamo conto dell'interiorità delle persone, ma queste cose andrebbero accoppiate con gli aspetti positivi delle popolazioni tribali, che sono in sostanza la capacità di sviluppare un processo cooperativo armonico con la natura.